La Venere di Willendorf è su Instagram !
D'accordo, non è che realmente la Venere di Willendorf sia su Instagram lei prorio in persona, ammesso che fosse una persona.
Voglio dire, di sicuro ci sono delle veneri di Willendorf su Instagram, non ho nemmeno controllato prima di scrivere il titolo, ma tanto non è questo il punto del post, si tratta di un titolo ad effetto.
Ora che ci penso non so nemmeno se la Venere di Willendorf possa stare su Instragram: è nuda ma non ha i capezzoli !
Qui ti voglio, algoritmo! Che facciamo?
Comunque, dicevo, non è questo il punto, se mi seguite tutto avrà un senso, spero.
Dunque.
Le cosidette “veneri paleolitiche” sono delle rappresentazioni femminili antichissime, le più antiche risalgono addirittura, a quanto pare a più di 300.000 anni fa.
Chiaramente non c'entrano nulla con la dea romana omonima, l'etichetta “venere” è stata loro data dagli studiosi per indicare come queste rappresentazioni (le più antiche rappresentazioni di un essere umano nella storia) avrebbero rappresentato per i nostri antenati un ideale di bellezza femminle, esattamente come per le rappresentazioni della dea Venere per i greci e i romani.
Le chiavi interpretative date dagli storici riguardo queste sculture sono due.
La prima chiave di lettura è naturalistica: c'è chi sostiene che coloro che scolpirono queste veneri fossero mossi da intenti mimetici, volessero cioè rappresentare la donna in maniera realistica e che le grosse natiche non fossero altro che un fenomeno di steatopagia (lordosi lombare che porta all'accumulazione di grasso nei glutei e nelle cosce). Queste veneri vengono infatti chiamate anche “veneri steatopige” (“dalle grosse natiche”) o callipige (“dalle belle natiche”).
La seconda chiave di lettura è di tipo più simbolico: le figure femminile rappresentate con caratteri sessuali così accentuati sarebbero delle divinità propiziatorie della fertilità, incarnando un modello ben preciso di bellezza ideale dell'epoca.
Capire come l'uomo, nei millenni, si sia sempre confrontato con la sessualità e la sua rappresentazione in maniera molto simile a come continua a farlo adesso, probabilmente aiuterebbe a capire certi meccanismi di rappresentazione della sessualità contemporanei, avere gli strumenti per analizzarli e per capire che si tratta, appunto, di rappresentazioni, non della realtà.
La nostra epoca storica è quella che offre una quantità mai vista prima di immagini erotiche e pornografiche.
Si ha accesso a questi stimoli sessuali in maniera incontrollata fin da giovanissimi.
La conoscenza della sessualità passa prima attraverso queste rappresentazioni prima che nella vita reale.
In giovane età, al momento di rapportarsi alla sessualità reale e non virtuale, capita sempre più spesso che si confondano i due piani.
In questi casi le cronache parlano di oggettivizzazione del partner e violenze di vario tipo. La pornografia è spesso indicata come principale responsabile di tutto ciò.
Non credo sia così.
Credo c'entri molto di più la confusione tra reale e sua rappresentazione.
Il virtuale non è un invenzione dei social, la rappresentazione di una “realtà altra” è una caratteristica che l'essere umano si porta dietro da quando esiste.
Nei mezzi di comunicazione digitali contemporanei, il virtuale è rappresentato in forme talmente iperconnesse alla realtà e in maniera talmente rapida, che distinguerlo dal reale è sempre più difficile.
La rappresentazione del virtuale è sempre stata uno dei tanti compiti dell'arte.
Per questo lo studio dell'arte e delle problematiche da essa affrontate è fondamentale soprattutto oggi, in una società che parla tantissimo con le immagini e il cui confine tra reale e virtuale è sempre meno netto.
Lo studio delle rappresentazioni erotiche nel corso della storia, i diversi concetti di bellezza ed erotismo che c'erano dietro tali rappresentazioni, farebbe capire ai giovani una cosa molto semplice: dietro una qualsiasi rappresentazione virtuale c'è una precisa idea.
Che non è mai “la realtà”, ma solo un suo aspetto.
Si potrebbe ridere insieme di come le esagerate veneri paleolitiche fossero un ideale anche erotico dei nostri antenati. Questi seni enormi, queste natiche giantesche, maddai.
Poi però facciamo un giretto su Instragram.
La venere di Willendorf e le sue amiche sono tutte lì!
L'esasperazione dei caratteri sessuali è ancora lì, non sono più dee della fertilità, ma mostrano ancora i seni e le natiche enormi, in maniera innaturale, aiutandosi con inquadrature, indumenti, chirurgia, filtri.
E' davvero così diverso che nel paleolitico?
Certamente lo è, le motivazioni culturali dietro sono altre, ma il risultato non è così dissimile.
La Venere di Willendorf , la Dea Madre della fertilità della società matriarcale, non rappresenta una scena erotica, è un feticcio erotico sacro.
Essa mostra la sua sessualità esagerata non rappresentando un atto erotico, ma esigendo dal fruitore un atto autoerotico.
Esattamente come fanno le nipotine della venere di Willendorf su Instragram.
L'immagine ipersessualizzata della figura femminile non è costruita per potersi inserire all'interno di una scena erotica che preveda la presenza di una controparte.
La controparte ideale di tale immagini rimane fuori dalla rappresentazione: è il fedele o, se preferite, il follower.
L'immagine ipersessualizzata non richiede di partecipare all'atto erotico, richiede adorazione, è un immagine sacra e viene percepita come tale.
“Sacro” significa “separato”, essere altro dalla realtà, pur mantenendo un rapporto con essa.
Ma non è un rapporto dialetttico, alla pari, si tratta di un rapporto gerarchico, dall'alto verso il basso.
Questa dinamica della Dea Madre in alto e il fedele in basso si manterrà per tantissimo tempo, attraversando le civiltà e trovando un suo provvisorio punto di approdo in una delle ultime incarnazioni della Dea Madre, priva ormai da tempo della sua carica erotica, la Madonna.
In molte pale di altare, soprattutto nel Rinascimento e nel Barocco, questa dinamica alto/basso è rappresentata in maniera inequivocabile.
Ricordiamo una delle più famose, l' “Assunta dei Frari” di Tiziano del 1516/18.
La Madonna è la Dea Madre cristiana è desessualizzata dal paganesimo al cristianesimo.
Laddove la Dea Madre è nuda, la Madonnna è completamente vestita e pure col manto in testa.
Laddove la Dea Madre rappresenta la fertilità, la Madonna è madre soltanto una volta per partorire il divino, poi rimane, paradossalmente, Vergine.
Però rimane la dinamica basso verso alto.
Gli apostoli nel piano inferiore che guardano e alzano le braccia verso l'alto, sono nella stessa posizione concettuale del nostro antenato paleolitico con la sua statuetta e come il follower tipo delle nipotine della venere di Willendorf.
Questa semplice analogia può bastare per descrivere l'erotismo voyeristico e virtuale contemporaneo?
Sicuramente no, la società oggi è molto più complessa e ci sono altri elementi di cui tenere conto.
L'uomo primitivo “pregava” il proprio feticcio anche attraverso il rituale dell'autoerotismo, per propiziare la fertilità, il ragazzo su Instragram probabilmente compie lo stesso atto, ma per il puro piacere edonistico, senza uno scopo ulteriore.
Questa è una differenza da non sottovalutare.
Se l'adorazione dell'immagine sessuale sacra per l'uomo primitivo aveva come obiettivo propiziare l'accoppiamento, per il follower tale obiettivo non esiste, il follower è un "fruitore celibe".
Ci stiamo avvicinando a Duchamp e le sue "macchine celibi".
"Macchina celibe" è la definizione che Marcel Duchamp diede alla sua più grande opera, di cui parleremo tra pochissimo.
Per "macchina celibe" si intende un meccanismo inutile, fine a sè stesso. Una macchina "inutile", l'esatto contrario di ciò che dovrebbe essere una macchina, in perfetto stile dadaista.
L'opera di cui parliamo è “Mariée mise à nu par ses célibataires, même” (“ La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche”, ma in frencese , “même” si pronuncia come “m'aime”, “mi ama”), conosciuto come “Il grande vetro” realizzata tra il 1915 e il 1923).
Duchamp mette in piedi una complessa rappresentazione simbolica il cui centro è proprio il meccanismo alla base dell'erotismo, pur non trattandosi di un'immagine erotica.
L'installazione si presta a varie interpretazioni, l'artista non ha mai né confermato né smentito nessuna di esse e si mantenne sempre molto ambiguo nella spiegazione delle sue opere.
“Il grande vetro” è suddiviso in due parti, la parte inferiore si riferisce al mondo degli “scapoli”, la parte superiore a quella della sposa.
Una separazione di livelli che richiama le pale di altare di cui sopra, la separazione che sta dietro al concetto di sacro. Lo stessa denominazione della sposa nel titolo orginale in francese “ Mariée”, ricorda anche il nome di Maria e di madre, rendendo il paragone con la Madonna (e la Dea Madre) ancora più stringente.
Nella parte superiore la sposa è raffigurata sulla sinistra, in maniera macchinosa e complessa. Accanto ad essa una sorta di nube con dentro tre quadrati, ottenuti appoggiadovi sopra dei canovacci in maniera casuale.
La parte inferiore è dedicata agli scapoli, “i fedeli della Dea Madre” che hanno attraversato i millenni, e da uomini primitivi sono diventati cattolici e infine fruitori contemporanei di un erotismo fine a se stesso. Sono nove, rappresentati in maniera stilizzata e meccanoforme sulla sinistra, che esibiscono una tensione verso l'alto.
La tensione erotica è alimentata da una macinatrice di cioccolato collegata ad un carrello. Un elemento decontestualizzato dalla sua funzione, che genera un movimento automatico.
Dunque un movimento erotico non finalizzato alla fertilità o alla riproduzione.
Così come genera un movimento automatico, in avanti e indietro, a imitazione del movimento coitale, il carrello sulla destra.
La spinta erotica legata alla fertilità delle veneri, passata attraverso la desuessualizzazione cattolica, torna erotica nel Novecento, senza finalità riproduttive, ma puremente masturbatorie.
Gli scapoli in basso, attraverso il complesso meccanismo, schizzano verso l'alto, ma i loro schizzi rimangono in aria, non raggiungono la sposa.
Una “macchina celibe” , come appunto è denominata, un macchinario che non serve a nulla, una tensione erotica fine a se stessa.
L'automatizzazione dell'erotismo che suggerisce Duchamp assomiglia molto all'erotismo consumato automaticamente attraverso i media contemporanei.
Trovo poi incredibimente affascinante il fatto che tutta l'opera sia riprodotta su un grande vetro.
Duchamp utilizza questo strano supporto per andare oltre il concetto tradizionale di quadro, non poteva assolutamente farlo su una tela.
Il vetro rappresenta una superifice più dinamica,l''immagine riprodotta nel vetro non è mai stabile, inevitabimente si è costretti a vedere ciò che passa attraverso. Ciò che passa dietro lo si vede “in automatico”, ed è mutevole.
Questo forse Duchamp non poteva immaginarlo, ma incredibilmente in manera del tutto casuale, “Il grande vetro” può ricordarci il piccolo vetro che teniamo costantemente in tasca e attraverso il quale passano tutti i nostri stimoli estetici, erotici o meno.
Duchamp era così, più che un artista era un oracolo.
Questa bizzarra linea di unione tra preistoria e avanguardie storiche passando per Tiziano, è quello che credo si debba fare quando si analizzano le opere d'arte.
Intendiamoci, è un approccio fondamentale, ma si deve andare oltre.
Credo sia necessario, e anche divertente, unire i puntini e capire come le opere del passato parlino col presente e spesso pure col futuro.
In questo modo si può facilmente scoprire come certe dinamiche non sono affatto nuove e che, se si vuole, si può anche trovare una chiave per affrontarle.
Marco Lanza
luglio 2022
Le veneri vanno venerate, le madonne smadonnate
RispondiEliminaMarco Lanza sarò breve. Non sono d'accordo con l'analisi che fai della Venere di Willendorf paleolitica in riferimento al rapporto che l'uomo ebbe con la realtà/rappresentazione in quel tempo. Ovviamente il mio dissenso, considerandolo come lettura critica, non è neanche mio; faccio riferimento a una lettura sociogica di A.Hauser della sStoria dellArte: nella concezione paleolitica del mondo non vi è differenza fra realtà e rappresentazione. Mi scuso per la sintesi un po' rozza.
RispondiEliminaciao Alexandra, ho riletto Hauser e sono d'accordo anche io con la sua analisi a cui fai riferimento. Tuttavia, sebbene l'uomo paleolitico non faccia differenza tra realtà e sua rappresentazione, ciò non toglie che la sua sia comunque una rappresentazione e come tale possa essere valutata, a prescindere dalle reali intenzioni dei fautori di quei manufatti. Il mio ovviamente è un approccio critico molto libero, quasi ludico, e non ha nessunissima pretesa di obiettività. Grazie mille per il tuo commento.
Elimina