L' affaire GECO

Nota: mi sembra il caso di ritoccare alcuni terminologie utilizzate e aggiungere alcuni distinguo, in questo articolo, dal momento che in tanti hanno mi hanno fatto notare che l'utilizzo del termine "street art" per includere tutto ciò che è intervento artistico o performativo nello spazio pubblico, sia errato.
Ne ero consapevole, ma la mia era una generalizzazione voluta per poter parlare della sostanza di alcuni procedimenti senza perdermi nei discorsi (a volte un po' ridondanti) sulle etichette. Paul Valery diceva : "ci si disseta con i contenuti delle bottiglie, non con le loro etichette".
Tuttavia mi rendo conto che nella prima versione del post ho usato un'approssimazione nelle terminologie, correggo dunque sostituendo la termilonologia corretta.
Nel “glossario del graffitismo” su wikipedia non esiste la voce “street art” , ciò mi fa dedurre che la mia generalizzazione fosse corretta quando ho incluso nella categoria autori diversi, come Blu e Geco in questo caso specifico.
Il glossario consultato, assieme ad altri siti specializzati, forniscono molte terminologie legate alla controcultura del graffitismo, secondo criteri che mettono in risalto più la metologia che lo stile in se. In certi casi la metologia crea lo stile, in altri casi, sotto un termine, è possibile trovare lavori esteticamente molto diversi.
Mi ripropongo di approfondire meglio per eventuali altri post sulla street art.
Per adesso credo sia sufficente specificare che lo street artist di cui si parla in quest'articolo porta(va) avanti un'azione ascivibile al tagging, spesso in una una sua sottocategoria ossia la sticker art. Il metodo utilizzato si definisce bombing.
Copioincollo da wikipedia le definizioni delle due categorie.
Le parti corrette o aggiunte nell'articolo sono evidenziate in neretto.
Tag (firma) con questo termine si intende la forma più basilare di graffiti, solitamente è la firma del writer realizzata con spray o marker.
Sticker art : una forma di tag realizzata tramite adesivi stampati dal computer, possono contere solo la firma o il logo del writer o essere più elaborati, con piccoli caratteri e decorazioni. Alcuni writer credono che questo tipo di arte sia solo per coloro che hanno paura ad usare marker o bombolette, e quindi non ne fanno uso.
Bomb o Bombing: consiste nel coprire numerose superfici con throw-up o tag, semplici e veloci da realizzare.
Nella foto sono io a Roma che guardo un adesivo di GECO in maniera molto espressiva, credo.)
Nel novembre 2020 la la denuncia del tagger GECO Lorenzo Perris, in arte GECO ha innescato le solite polemiche su cosa sia arte, se quella praticata dal suddetto street artist sia da consideraere tale.
L'allora sindaca Raggi, con la prosopopea tipica dei politici locali, mette su un post su facebook che a leggerlo sembra quasi che abbiano arrestato Matteo Messina Denaro.
Pe il resto, il solito teatrino.
I soliti liberal a favore dell'artista che si indignano e i soliti bacchettoni a favore invece dell'arresto che si indignano dell'artista o sedicente tale.
Fin qui, mi sembra , tutto perfettamente normale, ogni attore della commedia interpreta perfettamente il suo ruolo senza nessuna sbavatura, persino la sindaca, incarnazione del potere, che si vanta sui social mostrando il pericolosissimo bottino composto da adesivi, bombolette e simili.
Però qualcuno DEVE avere ragione, giusto? Chi ha ragione? Entrambi gli schieramenti hanno certamente degli ottimi argomenti dalla loro parte. Da un lato i latori della libera espressione artistica che gridano a gran voce che (a ragione) che la street art è ormai ampiamente storicizzata e accettata tra le discipline sorelle un tempo considerate più “alte”.
E quindi no, GECO non si tocca, è una vergogna e così via.
Dall'altro lato i latori del buon costume e del decoro, che denunciano la deturpazione di spazi pubblici, i danni pagati dai contribuenti e anche la non artisticità dell'intervento di GECO, in quanto semplice appiccicatore di adesivi e scrittore ossessivo del proprio nome e nulla più.
Aggiungendo che il tagging,la sticker art, il bombing, non sono categorie artistiche per via della loro automaticità, invasività. Una delle critiche più gettonate è che il tagger non fa arte , vuole solo “marchiare il territorio” col suo nome. Osservazione del tutto fondata e dichiarata dagli stessi tagger.
Intanto cos'è la street art?
La street art è stata tante cose, ma possiamo trovarvi un comune denominatore nell'appropriazione artistica dello spazio pubblico in forma assolutamente individuale ed anarchica.
La street art ha sempre vissuto in maniera molto ambigua il rapporto con le istituzioni proprio a causa della sua natura originale: essa nasce contro le istituzioni, mette in discussione la stessa collocazione dell'opera d'arte, è pubblica, gratuita, contro il potere e contro ogni tentativo di quest'ultimo di imbrigliarla e istituzionalizzarla.
Ci ricordiamo molto bene l'operazione di Blu a Bologna , che cancella le proprie opere nel momento in cui le istituzioni volevano darle una cornice ufficiale (il discorso su Blu sarebbe molto più complesso, non possiamo affrontarlo adesso, a questo link la notizia del 2016 )
Blu mentre cancella il proprio murales all'XM24 , Bologna 2016
Tantissimi street artist sono ormai esposti nei musei compaiono nei testi di storia dell'arte, a quasi nessuno pare importare molto la contraddizione d'origine, e a noi va benissimo così, anche perchè se si ricercasse coerenza negli artisti non potremmo nemmeno ammirare i futuristi nei musei, dato che all'inizio i musei li volevano proprio distruggere.
GECO è un tagger che fa spesso uso degli adesivi, l'elemento artistico in senso tradizionale è ridotto al minimi, quasi inesistente per i più. Per questo motivo, a mio avviso, la sua azione non può essere valutata sotto i criteri formali con i quali si può giudicare un graffito tradizionale, figurativo o meno, ma con criteri performativi e concettuali.
GECO si appropria(va?) dello spazio pubblico in forma anarchica, rientra dunque perfettamente nel novero degli street artists.
Perchè dunque certi street artists dopo un po' sono accettati dai benpensanti tanto che vogliono chuderli nei musei mentre GECO no (o almeno non ancora)?
Un motivo che mi viene in mente è una certa idea piccolo borghese di “artisticità”, di bel disegno. Blu sarà anche contro il sistema, ma è un bravissimo disegnatore, un brillante creatore di mondi visivi. Dunque ecco che alla fine il “bello”, o addirittura il famigerato “carino” tornano nella discorso pubblico sull'arte ( o forse non se ne sono mai andati via!)
Tutto diventa una bella decorazione agli occhi del grande pubblico intellettuale e non, il significato originario dell'opera si perde.
Credo che Blu si ribellasse anche a questo (ma è solo una mia opinione) e in fondo non riesco ad immaginare cosa penserebbe il povero Edward Munch se vedesse una delle sue opere più personali nelle quali metteva a nudo la propria fragilità emotiva e psichica, decorare magliette e tazze per la colazione.
Tornando a GECO, l'automaticità delle sue operazioni, il suo essere un tagger compulsivo che peraltro spesso nemmeno lo disegna il suo nome, ma lo stampa e lo appiccica, la sua opera manca di questa presunta “artisticità” che potrebbe farlo apprezzare al grande pubblico. Ma è una critica sciocca, in quanto l'arte ha già dimostrato ampliamente che esistono anche i binari del concettuale, della provocazione , della performance e così via.
Da sempre le operazioni artistiche (o, se preferiamo, estetiche) che comportano poco lavoro manuale e vengono prodotte in maniera automatica, sono state tacciate di non essere arte. Possono non esserlo in senso classico, ma lo sono in senso postmoderno.
Ricordiamo che queste critiche le ha avute la fotografia fin dai suoi esordi, le hanno avute i ready made dadaisti, e tanta arte concettuale.
Non si vuole accettare acriticamente ogni operazione automatica come operazione artistica, si vuole però analizzarla per capire se dietro tali operazioni esiste qualcosa di più profondo che possa, o meno, annoverarle all'interno del variegato mondo dell'arte.
Una poetica.
Dunque per capire GECO bisogna capirne la poetica.
GECO ha scritto manifesti?
Non mi risulta, ma ha fatto una dichiarazione significativa al sito portoghese“Ocorvo.pt” (GECO ha operato in vari paesi).
Cito : “voglio diffondere il mio nome. Il mio obiettivo è averlo in così tanti posti da rendere impossibile non ricordarlo".
La poetica di GECO mi pare dunque molto chiara, e in effetti osservando la sua opera ci si poteva arrivare anche senza una dichiarazione ufficiale .
La sua opera infatti consiste nella reiterazione in svariate maniere diverse del suo nome in caratteri maiuscoli con un particolare font riconoscibile, quasi sempre senza nessuna aggiunta, talvolta inserita in delle frasi (“GECO TI METTE LE ALI” ad esempio). Un singolare caso in cui l'opera e la firma dell'artista in pratica coincidono quasi sempre.
L'affermazione del proprio nome, così esibita e addirittura dichiarata, rientra perfettamente nella zeitgeist dei tempi in cui viviamo, nei quali l'affermazione dell'individualità in ogni forma e piattaforma possibile, la ricerca dell'approvazione delle masse virtuali, il valore dato al numero dei followers, l'indicizzazione del proprio nome, che inizia ormai ad assumere anche un valore economico .
Sempre più spesso infatti il potere contrattuale di un artista è commisurato al proprio seguito sui social, per non parlare dell'odiatissimo, ma perfettamente coerente con questo sentire generale, “ti pago in visibilità”.
In questo contesto l'opera di GECO, lungi dall'essere una mera ripetizione, ci pone davanti a due differenti e possibili interpretazioni: è una critica a questo spirito dei tempi, o ne è l'ennesima incarnazione?
GECO vuole farci riflettere sull'invasività dell'ego nella nostra contemporaneità, rappresentandola graficamente e creando ad hoc un intervento visivo che dovrebbe indurci a riflettere sulle nostre personali strategie di invasione della reale/virtuale con nostro ego?
Oppure egli semplicemente vuole ricrerare nel reale quello che noi tutti perseguiamo nel virtuale perseguendo i nostri medesimi obiettivi, ossia l'affermazione del nostro nome, ossia del nostro ego, non importa facendo cosa.
O forse, una terza interpretazione (ma ce ne potrebbero essere tante), GECO vuole ricordarci che la differenza tra reale e virtuale, esiste, ci coinvolge, è lì davanti ai nostri occhi.
Se vogliamo però attenerci alla dichiarazione d'intenti dell'artista, allora diamo per buona la seconda possibilità, l'intera opera di GECO è esistita ed esiste per perpetuare il nome dell'artista. Preoccupazione che in fondo accomuna tutti gli artisti dalla notte dei tempi.
In tal caso la recente denuncia dello street artist, lungi dal doversi considerare la fine di una narrazione artistica, ne è l'apice, direi persino la consacrazione.
La denuncia pubblica di GECO rafforza innanzituto il suo stato di street artist in quanto in aperto contrasto col potere, non mettendolo nell'imbarazzante posizione di essere circuìto dal potere stesso come altri street artists prima di lui.
Inoltre la denuncia pubblica, con tanto di post sui social da parte delle istituzioni trionfanti , articoli su blog e giornali, hanno fatto conoscere GECO anche a tutti coloro che non avevano visto una sua opera, anche alla vecchietta di paese, anche ad utenti lontanissimi dai contesti controculturali e urbani nei quali l'artista si muoveva.
La denucia segna dunque non una sconfitta, ma la fine necessaria, il coronamento di una poetica.
Diventa essa stessa parte della narrazione e di fatto compie l'obiettivo dello street artist.
Da questo punto di vista la denuncia è stata giusta, un male necessario che ha dato un senso di compiutezza ad una poetica altrimenti perennemente in fieri.
(l'arte non è etica, ma non si gioisce delle grane legali altrui, sarebbe dunque bello che tutti i sostenitori di GECO istituissero un crowdfunding per pagarne le spese legali, al quale personalmente sarei lieto di partecipare).
La denuncia pubblica segna dunque la fine dell'artista GECO o di questa precisa serie di suoi lavori?
L'opera di GECO è davvero solo il suo nome, o è/potrebbe anche essere altro?
Se dobbiamo basarci su quanto visto finora, GECO è la sua opera, finita l'opera finisce anche GECO, almeno in questa veste.
Ma queste sono solo congetture, non sappiamo come andrà a finire.
GECO potrebbe sparire dopo aver compiuto il suo scopo poetico, e ciò potrebbe farci riflettere sulla (non)importanza dello scopo nell'arte come nella vita: raggiunto lo scopo ci si dilegua, ma forse si è sfuggiti all'oblìo, almeno per un po'.
Dunque il solo modo per poter continuare ad esistere, forse, è sparire.
Oppure GECO potrebbe continuare la sua opera tale e quale se per lui avesse ancora un senso.
Personalmente vedrei in una sua continuazione un inutile accanimento terapoetico, un ripetersi infinito che, paradossalmente, la destinerebbe alla dimenticanza, che è esattamente il contrario di quello che GECO ha dichiarato di voler perseguire.
Vedremo.
Mi fa sorridere la polemica che ciclicamente si innesca a proposito di street art.
RispondiEliminaMi fa sorridere soprattutto se penso ad operazioni meramente commerciali come Banksy al museo, cosa che per fortuna, come tu stesso citi, Blu è riuscito ad impedire con una simbolica manifestazione collettiva, la ricordo bene. Certo, non credo sia colpa dell’artista in questo caso e a questo proposito, sempre per sottolineare quello che sappiamo essere il pensiero di Banksy, basti ricordare la distruzione dell’opera durante l’asta (quale operazione più dadaista di quella!). Banksy e Blu però, come tu stesso dici, non sono stati vittime della stessa campagna di discredito che ha colpito Geco e poni una riflessione sul “concetto di bello” interessante (francamente è un tema che non mi appassiona molto, ma c’è) e potrebbe essere un’interpretazione corretta (a Londra c’è chi di proposito va alla ricerca dei murales di Banksy). Insomma, secondo qualcuno Banksy e Blu potrebbero stare in un museo, Geco no. Banksy e blu riempirebbero (in termini di affluenza) un museo, Geco no. (Poi però, a proposito di bello, parliamone dei palazzoni di cemento sui quali dipinge geco!).
In un certo senso si può comprendere la musealizzazione, il desiderio di conservare una testimonianza (e qui è il mio lato da restauratrice che parla), evitare che deperisca, goderne il più possibile. Tuttavia mi chiedo che senso abbia, in questo caso.
Geco però non è l’unica vittima di questo sistema, basti pensare a Clet, che a Firenze credo sia stato multato più volte e al quale hanno fatto rimuovere l’uomo che salta nel vuoto sull’Arno (vado a memoria e potrei essere imprecisa).
Ma ora vengo al punto che mi interessa di più: il decoro. In nome del decoro si sono giustificate negli ultimi anni delle vere nefandezze, tipo: i braccioli sulle panchine per non farci dormire i clochard; multe a chi dava da mangiare ai senzatetto (la criminalizzazione della solidarietà!) per non farli “bivaccare” (parole non mie) per strada; ordinanze a Firenze che vietano di mangiare un panino per strada; rimozione con tanto di video e documentazione fotografica di materassi e coperte dei senzatetto dalla strada; e ultimo (ma potrei citare altre mille cose) una proposta a Napoli di vietare di stendere i panni per strada.
Insomma, tutta questa retorica sul decoro a me fa paura, perché non legge le fitte trame della società, ma si ferma all’apparenza che invece andrebbe scrostata dalla superficie.
Queste possono sembrare tutte cose sconnesse tra loro e che non hanno un nesso con quanto scrivi, ma non è così.
Per ritessere il filo ritorno alla questione napoletana dei panni stesi: 1) i turisti vanno alla ricerca dei panni per fotografarli. Per molti è una cosa insolita da vedere e caratteristica (sia chiaro, me ne frego di quello che pensano i turisti, per me la questione è un’altra); 2) a Napoli c’è ancora gente che vive nei bassi o comunque ha un unico balcone dove stendere e le case del centro storico hanno una certa conformazione. Non è qualcosa di culturale o di caratteristico, è proprio una questioni di necessità. Questo dimostra quanto poco si conoscano le città che viviamo. Quanta poca contezza abbiano anche i nostri governanti di quello che governano (la Raggi per altro ha fatto una battaglia a geco sul decoro, ma è stata molto criticata sulla gestione rifiuti, quella sì che deturpa la città! Vale per Roma, ma potrebbe valere per molte altre città).
A Napoli, in alcuni quartieri frequentati dai turisti ci sono dei panni stesi (finti) che tutti fotografano. Questo è l’emblema di tutta questa storia: i panni finti si. Quelli veri, no. E mi torna in mente quanto detto prima a proposito di Bansky e Blu al museo. Se dipingo su un muro ho deturpato un bene pubblico che sarà ripulito con “i nostri soldi!”. Ma se si paga un biglietto d’ingresso, va bene (sempre con i nostri soldi, eh).
Ma non sarà che geco non “tira” quanto altri? Forse è così, ma noi lo amiamo lo stesso <3
Sono d'accordo con te su tutto. Anche la grottesca questione di finti panni stesi a Napoli, se ci pensi è comunque una forma di "instalazione artistica" o pseudo tale al servizio del turismo di massa. Le operazioni estetiche con finalità economiche sono accettate, quelle che non possono essere messe in questa categoria, demonizzate.
EliminaBel blog, bei commenti! Mi spiace non contribuire più degnamente, mi limito a fare la piaciona/guardona. Grazie!
Eliminaun contatto su facebook scrive: esiste la street art ed esistono i graffiti.
RispondiEliminaLe seconde sono più delle pisciate territoriali che arte.
Voglio dire, alle persone cosa ne deve fregare del tuo nome d'arte sparso ovunque?
rispondo qui: ho nominito "street art" ogni operazione estetica nello spazio pubblico, so bene che ci sono altre categorie, ma per il discorso fatto mi era comodo semplificare. La riflessione non verte sulle differenze tra le categorie,ma cerca di trovare una "poetica" all'operazione di GECO. sono consapevole che per molti non è considerabile un artista , ma anche altri in passato non erano considerati tali. Ovviamente le categorie utilizzate in questo ragionamento sono soprattutto quelle del concettuale, non certo del pittorico. Poi magari sono campati in aria, ma dare un senso ad un'operazione estetica è esattamente il ruolo di chi parla di arte, credo.